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Claudio Niniano: La mia vita da busker

Era il 1988 quando Bruce Springsteen, armato solo di chitarra e voce, improvvisava un live per le strade di Copenaghen. Lo stesso fece Sting in quel di Londra, avendo però l’accortezza di travestirsi per non essere riconosciuto e guadagnando, peraltro, quaranta sterline in offerte. Sono molti i nomi, più o meno noti, di coloro che, anche solo per un giorno, hanno voluto indossare i panni dello street musician. Forse per riconquistare fiducia nelle proprie capacità? o per abbattere il “muro” della fama di Floydiana memoria? Difficile a dirsi.

Quel che è certo è che la figura del busker continua a esercitare un grande fascino e al di là delle performance estemporanee delle star, ci sono persone che hanno fatto del “buskerismo” una scelta di vita. È questo il caso di Claudio Niniano, giovane songwriter milanese che ha deciso di portare il la sua musica “on the road”. Nel corso di una lunga chiacchierata abbiamo conosciuto un artista di spiccata sensibilità e carisma, e attraverso la sua esperienza ci siamo addentrati nel singolare mondo della Street Music.

Inizi a studiare musica a undici anni e hai militato in diverse band prima di diventare un busker. Che cosa spinge un musicista con tanti anni di studio e di esperienza alle spalle, a compiere una scelta così radicale?

Premetto che non ho studiato tanto quanto altri miei colleghi musicisti e non ho frequentato nessuna scuola specialistica, ma nel corso degli anni mi sono affiancato a dei professionisti, facendo una formazione piuttosto mirata. Ho deciso molto presto di intraprendere la carriera di cantautore solista, accompagnandomi con chitarra acustica e armonica, quindi ho cercato (e cerco tuttora) di acquisire le competenze e le capacità tecniche per utilizzare al meglio lo strumento con tutte le use possibilità espressive.

Detto questo, ho cominciato a suonare per strada perché volevo mettere alla prova me stesso e la mia musica. In questo senso, non c’è niente di più immediato dell’esperienza del busker.

Alla base di questa scelta c’è l’urgenza di comunicare attraverso la musica ma anche l’idea di “abitare” uno spazio con la musica, uno spazio che di solito non è adibito a tale scopo. Cerchi di “arredarlo” in qualche modo con la tua musica e in questo spazio le persone sono assolutamente libere di stare, sostare o andare via.

Suppongo che esibirsi “on the road” sia diverso dal farlo su un palco, o in un locale..

Tra il palco e la strada c’è un abisso, perché il palco crea un’ ”attesa”, un aspettativa per qualcosa che deve succedere. Questo non avviene sulla strada e ciò ti libera da tutta una serie di ansie da prestazione. Poi, sotto certi aspetti, il palco è molto più difficile perché lì l’atmosfera che si crea è più “statica” rispetto a un luogo aperto dove la gente passa, va e viene, dove c’è sempre un ricambio di energia e di persone. Sul palco devi necessariamente conquistare il pubblico. In strada può capitare che per mezz’ora non “ti si fili” nessuno e poi in cinque minuti si crei una folla di gente che sta lì e ti ascolta. C’è un grande senso di libertà.

Quali sono le reazioni della gente? Ci sono dei pregiudizi verso chi fa questa scelta di vita?

I pregiudizi ci sono, anche se la mia esperienza è sempre stata positiva. A volte, qualcuno che apprezza particolarmente la mia musica mi dice che sono sprecato per suonare in strada. Il pregiudizio, infatti, è più legato al luogo che non alla persona, perché spesso quelli che abitano la strada non sono solo artisti ma clochard e persone disagiate di vario genere.

Ciò che la gente non sa è che un artista di strada cerca di valorizzare un luogo con la propria musica e si tende a ignorare che dietro a tutto questo c’è molto impegno e studio. La gente spesso non concepisce che quello è il tuo lavoro, ma vede la tua esibizione come un evento estemporaneo.

È difficile trovare spazi per suonare? C’è competizione tra artisti di strada o esiste una sorta di codice tra busker?

Secondo me non c’è competizione, anzi, c’è molta complicità tra di noi.

A Milano, ad esempio, c’è un’associazione di artisti di strada e ogni tanto ci incontriamo.

In questo modo si cerca di creare comunicazione tra di noi, per migliorare l’organizzazione delle postazioni, per rispondere a quelle che sono le nostre necessità e per affrontare i problemi che inevitabilmente si incontrano quando si suona in strada.

Non c’è un vero e proprio codice. Ciò che è importante, per chi fa questo mestiere con cognizione di causa, è sapere che il luogo che occupi è un luogo da rispettare. Ne conseguono tutta una serie di cose, come non avere volumi troppo alti o non occupare una postazione per troppe ore. Insomma norme di civile convivenza e rispetto che valgono in tutti i contesti.

Le normative attuali che regolano l’attività degli artisti di strada a Milano sono, a tuo avviso, adeguate?

Milano è assolutamente la città più all’avanguardia in Europa, nel senso che noi possiamo prenotare le nostre postazioni presso una piattaforma on line senza pagare nulla, attraverso un sito che si chiama www.stradaperta.it e che esiste da circa un anno e mezzo. Le postazioni sono già prestabilite e assegnate e il tempo a disposizione è di tre ore per ogni prenotazione.

I problemi maggiori sono invece legati alla tutela del nostro lavoro, nel senso che noi busker siamo un po’ alla mercé di ciò che può succedere per strada. La figura del busker, in effetti, non è ancora pienamente riconosciuta e quindi protetta e forse non lo sarà mai per via della sua natura un po’ estrema.

Tu hai vissuto molto all’estero. Nel 2006 sei andato negli States e poi in Africa. Cosa ti ha spinto a partire?

Ci sono stati vari motivi, in parte per ragioni personali e in parte per curiosità. Volevo vedere com’era la vita altrove e ho scelto gli Stati Uniti perché per me rappresentano una miniera musicale. La scelta è stata guidata dalla mia passione per la musica. Volevo vedere come veniva vissuta la musica lì. Poi in realtà ho trovato molto più di ciò che mi aspettavo ed è diventata un’esperienza di vita a trecentosessanta gradi.

Nei paesi che hai visitato c’è una diversa considerazione della cultura busker, rispetto all’Italia?

Sicuramente… A New York, ad esempio, oltre ad esserci tutta una serie di regolamentazioni per le postazioni, il livello qualitativo medio è molto alto. Mentre qui in Italia, spesso, l’artista di strada è associato a un livello artistico un po’ scadente. Sebbene New York sia un caso a sé rispetto al resto degli Stati Uniti, credo che in America la figura del busker sia maggiormente accettata, proprio per l’elevato livello artistico.

Anche le tue canzoni sono una sorta di viaggio tra mondi musicali diversi, come si evince dall’ascolto del tuo album d’esordio A Few Lines (2013). Come nasce l’idea del disco?

In A Few Lines (Unsigned 2013) ci sono dentro anni di musica, di studio e di viaggi. L’idea è quella di tracciare alcune linee per l’inizio di un percorso musicale e creativo che è sempre in movimento. Per questo puoi trovare diversi generi musicali all’interno del disco. A livello di istinto mi sento molto più vicino al blues e al folk, ma la curiosità mi ha spinto ad avvicinarmi anche ad altri mondi musicali, come il jazz e il pop.

Riguardo a questo disco posso dirti poi che è suonato e arrangiato solo con chitarra acustica, voce e armonica, per dare un’impressione musicale il più vicino possibile a quello che faccio nelle performance live. Inoltre, l’intero album è stato registrato in una casa, precisamente in una camera da letto, nel giro di un paio di mesi.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Uno è quello di lavorare al mio secondo disco, che spero di cominciare a registrare in primavera. In secondo luogo, sto facendo una scuola per diventare musicoterapista e una volta ottenuto il diploma vorrei lavorare come tale. Poi a livello personale voglio andare avanti per la mia strada, cercando di mettermi in discussione, ma sempre in maniera creativa e mai distruttiva.

Vorrei chiudere proprio con l’immagine della strada, che Céline descriveva come “uno dei luoghi più meditativi della nostra epoca” e che per Kerouac era più semplicemente “La vita”.. Che cosa rappresenta per te la strada?

La strada è certamente un luogo in cui, se ti fermi e ti guardi attorno puoi far scorrere i pensieri e le emozioni. È un posto che dà un sacco di spunti di riflessione, ma per me la strada è soprattutto un luogo ricco di energie vitali, positive o negative che siano.

In Africa la gente lavora e vive sulla strada. Noi occidentali abbiamo più l’idea di strada come mezzo per andare da un posto a un altro. In realtà non si considera quanto sia bello il percorso e uno dei messaggi impliciti del busker è anche questo, “godersi la strada” al di là della meta che si deve raggiungere.

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